sabato 23 novembre 2013

Per Chiara Anita e Simone

Originale proprietà della famiglia Di Giovanni nel territorio di Marausa (Trapani)
                                 

                                    PER CHIARA  ANITA  E  SIMONE           

   Chissà se un giorno, i miei nipoti Chiara, Anita e Simone, avranno la curiosità di sapere qualcosa in più, sulla provenienza  della  famiglia del loro nonno materno.
 Adesso, aiutato da una ricerca  araldica fatta alcuni anni fa e con quello che è rimasto nella mia memoria, voglio provare a soddisfare la loro eventuale curiosità.

 Dalla Spagna, esattamente dalla città di Valencia, i discendenti del capo-stipite Giovanni Centelles, di nobile famiglia, si diramarono in Francia, nelle isole Baleari,  a Padova, Venezia, Napoli, e poi in Sicilia portati da re Pietro III D’Aragona negli anni del suo regno (1337-1342)
  I discendenti di questo Giovanni furono detti  DI GIOVANNI e allora comincia la storia della mia famiglia, che dal 1337 al 1650 circa, ebbe diversi personaggi importanti nella società siciliana, un Palamede (1373), un Ugo (1472), un Enrico (1462) ( e un Emerigo (1477), furono Cavalieri di Malta, un Francesco fu senatore di Palermo negli anni 1559, 1564,1569,1579, un Vincenzo di Giovanni e Del Carretto fu valente nel maneggiare la spada  e la penna, fu vincitore in molte giostre e tra gli altri lavori scrisse il “Palermo Restaurato”,un Palmerio di Giovanni e Cottone, per la moglie Anna Maria Del Giudice e Minatolo, fu primo barone di Solazzo (1606), fu senatore di Messina, maestro di prova della Regia Zecca, principe dell’ordine della Stella (1635) e maestro razionale del Regno, un Domenico di Giovanni e Giustiniani, con  privilegio dato  il 20 luglio 1641, ottenne il titolo di principe di Trecastagne, possedette la terra di Viagrande, i feudi di Graziano sollazzo, Pedara e acquistò la città di Castronovo (1639), un Gaspare fu senatore di Palermo nel 1668/69, un Vincenzo di Giovanni e Salvarezo, cavaliere di S. Giacomo della Spada, ottenne, con privilegio dato il 2 ottobre 1682, esecutoriato il 29 gennaio 1685, di titolo di duca di Saponara e, per la moglie Girolama Zappada, fu corriere maestro del regno di Sicilia,ufficio concesso in Feudum dall’imperatore Carlo V nel 1549 a Francesco Zappada de Tassis, un Ippolito, con privilegio dato il 6 gennaio 1688 fu corriere maggiore del regno, consigliere di Stato dell’Imperatore Carlo VI, acquistò il principato di Castelbianco e Montereale, per la moglie Flavia Pagano, fu principe d’Ucria, ottenne dall’Imperatore Carlo VI concessione del titolo di principe del S.R.

        Certamente da uno di questi personaggi discendeva il mio bisnonno Di Giovanni Salvatore, nato pressappoco nell’anno 1825, nella zona di Valderice, un paese alle pendici del monte Erice, che sovrasta la città di Trapani, dove certamente avevano dei terreni e facevano gli agricoltori.
   Ebbe 2 figli maschi (il nome della bisnonna, quasi certamente, era Caterina) Angelo, nato nel 1858, che era poi mio nonno e Giovanni Battista, che era il maggiore.
   Dopo l’impresa dei MLLE compiuta da Garibaldi nel 1860, con l’unità d’Italia, Vittorio Emanuele II soppresse tutte le corporazioni religiose con alcune leggi approvate dal 1862 al 1866 e, tutti i terreni di proprietà di queste, li diede in enfiteusi, ad affittuari o proprietari della zona. Uno di questi feudi di proprietà del convento S. Francesco D’Assisi di Trapani, si trovava a Marausa, una località a 10 KM da Trapani, e un appezzamento di questa  terra fu dato al mio bisnonno con l’obbligo di costruirvi una casa con una stalla, dove accudirvi il bestiame. Il mio bisnonno certamente si è trasferito a Marausa e, mentre il figlio Giovanni Battista ha cercato fortuna in America dove era andato con tutta la famiglia e, da dove è tornato alcuni anni dopo,  ricco, mio nonno Angelo si è stabilito nella casa paterna dove si è sposato con Giacoma Pantaleo, da lei ebbe 3 figli, Salvatore, nato attorno al 1890, Francesco, nato nel 1896 circa e Giuseppe, mio padre, nato il 10 gennaio 1900.
  Mia nonna Giacoma è morta giovane, e il nonno si è risposato con Barraco Maria, da Lei non ebbe figli, ma, una sua sorella di nome Francesca,(che sarebbe diventata mia nonna materna) aveva 5 figli, Leonardo, Giuseppe,Rosa, Marietta e Vita, nata l’11 novembre 1900, che sarebbe poi mia madre, ebbene frequentando casa di mio nonno Angelo, Marietta ha sposato mio zio Francesco che nel frattempo era emigrato anche Lui in America da dove e tornato per sposarsi e tornare lì dove hanno avuto tre figli un maschio Angelo e due femmine, Francesca e Giacomina (come vedete la tradizione in Sicilia era che al primo figlio maschio si metteva il nome del nonno paterno, alla prima figlia femmina si metteva il nome della nonna paterna, al secondo figlio maschio si metteva il nome del nonno materno, alla seconda figlia femmina si metteva il nome della nonna materna, poi se si avevano altri figli la regola era che si metteva il nome del primo fratello del padre, della prima sorella del padre e poi ancora il primo fratello della madre e la prima sorella della madre,un giro infernale che io quando ho avuto le figlie che sono le vostre madri ho voluto interrompere) e, Vita, ha sposato Giuseppe che era mio padre.
     I miei genitori si sono sposati nel 1922, si sono stabiliti nella casa di Marausa, assieme al nonno Angelo e lì, siamo nati noi 5 figli, anzi nascevamo a Paceco, in  casa della zia Rosa, sorella della mamma, un po’ perché a Marausa che era un piccolo paese agricolo, non c’era ne un dottore ne una farmacia ne una levatrice, ma principalmente perché mia madre era molto attaccata a sua sorella, anzi ne era un po’ dipendente psicologicamente, ricordo ancora quando veniva a trovarci la zia Rosa, si chiudevano in una stanza e la zia usava i suoi ( poteri ?) medianici  per rincuorare la sorella.
   Mio fratello maggiore Angelo è nato l’11/1/1924, poi il 15/9/1926 è nato Salvatore, l’1/1/1932 è nata Giacomina il 7/3/1938 è nata Francesca e infine il 13 febbraio 1941 sono nato io, Francesco Di Giovanni vostro nonno.
    In quegli anni c’è stata una grande crisi economica, sfociata poi nel 1929 con un tracollo finanziario ed una svalutazione monetaria, mio padre, anche perché aveva in carico tutti i nonni (allora non c’erano pensioni e i genitori anziani dovevano mantenerli i figli e gli altri figli non hanno voluto o potuto mantenerli), mio padre dicevo aveva fatto dei debiti e già avevano venduto parte della proprietà, aveva fatto anche un piccolo debito con suo zio Giovanni Battista che nel frattempo era tornato dall’America con una piccola fortuna accumulata non so come, certo dubbia, fatto sta che questo zio ha preteso subito la restituzione della somma prestata e, siccome mio nonno in quel momento non poteva, si è presentato a casa di mio padre e mio nonno che era già oltre gli 80 anni (è morto nel 1938) con un notaio e con poche lire si è appropriato di tutta la tenuta di Marausa, lasciando a mio padre solo 2 stanze dove abbiamo abitato fino alla mia partenza nel febbraio del 1961.
    Mio fratello Angelo, a 17 anni, poco prima che l’Italia dichiarasse guerra all’Inghilterra e alla Francia, aveva fatto la domanda di arruolamento nella Marina Militare, quando è stato il momento di partire era già scoppiata la guerra e mia madre non voleva saperne di lasciarlo andare, mio padre per farlo contento, di nascosto di mia madre è andato a firmare per il consenso, visto che era ancora minorenne e questo, visto quello che successe dopo, non gliel’aveva mai perdonato. Era imbarcato sul cacciatorpediniere Pola, è andato per mare per oltre due anni in varie missioni senza che gli succedesse niente, poi, nel febbraio del 1943 mentre erano attraccati al porto di Palermo, durante una buon’uscita mentre si trovava nella città, durante un bombardamento aereo francese, se ricordo bene, è rimasto sepolto sotto le macerie di una casa dove si erano riparati. Adesso è sepolto lì, nel cimitero ai piedi del monte Pellegrino che sovrasta Palermo, in una tomba di caduti in guerra.
    Una tragedia, io allora avevo 2 anni, mia madre certo ha perso il senno, rimproverava mio padre di averlo lasciato andare e, io immagino mio padre buono come era, (tutti dovrebbero avere un padre come l’ho avuto io) le pene che ha sofferto, è impazzita dal dolore ed ha pianto quel figlio fino alla sua morte, e certo da questo fatto doloroso sono venute in seguito le sedute di mia zia Rosa, per alleviare il dolore alla mia mamma. Io posso dire che mi ha allevato mia sorella Giacomina e mia nonna Francesca mamma di mia madre, di Lei ricordo che diceva quando piangevo per i capricci   “non fatelo piangere, è l’unico picciriddu masculu che c’ arristau “ perché nel frattempo, quando io avevo 4 anni, mio fratello Salvatore si era arruolato nella Guardia di Finanza e veniva in licenza una volta all’anno.
     Mio fratello Salvatore, come ho detto prima, è andato per la sua strada quando aveva 19 anni, finanziere al confine con la Svizzera, era a Varzo in provincia di Novara come primo servizio, una volta alla settimana mio padre andava in posta a qualche km da Marausa, non c’era neanche la posta li e , quando tornava con una lettera i suoi occhi erano pieni di lacrime, li vedevo io, anche se ero piccolo e allora non capivo perché piangesse, ora lo so. Ricordo il giorno del suo fidanzamento, mia cugina Maria di Paceco, figlia della zia Rosa, gli aveva fatto conoscere la Lina, io avevo 11 anni e siamo andati, tutta la famiglia, a casa della fidanzata per fare le conoscenze, allora si usava così. Da allora quando veniva in licenza non lo vedevamo quasi più perchè andava dalla fidanzata , allora sapete cosa faceva mio padre?, un giorno prima che arrivasse mio fratello, andava a prendere la Lina in bicicletta (sono 8 km) e la portava a casa nostra per qualche giorno,  per questo, per tutti noi è sempre stata ed e tutt’ora come una sorella.
      Salvatore e Lina si sono sposati nel mese di dicembre 1956, sono andati ad abitare a Caltanissetta, dove  Lui prestava servizio , ma  dopo qualche mese si sono stabiliti  a Chiari dove aveva fatto richiesta di trasferimento, ed è lì che è nata Angela la loro primogenita il 22/11/1957, ha voluto chiamarla con il nome del fratello morto a 19 anni, rompendo così la tradizione dei nomi ereditati dai nonni in maniera categorica. Il 4/5/1968, dopo che mi ero sposato io, hanno avuto un’altra bambina, Cristina, nata due mesi dopo mia figlia Marina.
      Intanto siamo nel 1961, era febbraio io mi sentivo come in gabbia in Sicilia, il lavoro lo trovavo saltuariamente, avevo 20 anni e ancora non sapevo bene come e cosa fare nella vita, avevo degli amici e con la moto che mi aveva regalato mio fratello Salvatore quando da Caltanissetta si era trasferito a Chiari, ci divertivamo ad andare in giro, ma di ragazze non se ne parlava per niente, per avere una ragazza dovevi prima di tutto avere una posizione e dopo potevi chiedere la mano al padre, una cosa che non avrei mai fatto o almeno fino ad allora non c’è n’era stata una che valesse la pena che io scendessi a questi compromessi, dal servizio militare ero stato esonerato perché “fratello di militare morto in guerra”, erano gli anni della grande emigrazione nel nord Italia, noi ragazzi eravamo in fermento, si parlava di partire e uno dei miei amici aveva uno zio a Monza che faceva l’impresario edile “ non era vero, era soltanto uno che dava gli operai alle imprese facendoli lavorare senza documenti per lucrarci sopra”.
     Partimmo una mattina di febbraio 1961,eravamo in 6 e, dopo 40 ore di treno, arriviamo a Milano, telefoniamo al famoso zio ma non lo troviamo, proseguiamo per Monza, arriviamo che era già sera, non sapevamo dove andare a dormire (ci aveva promesso anche un alloggio), ci incamminiamo nella città per trovare un albergo, davanti erano in 4 e noi due dietro, entravano a chiedere una stanza e tutti dicevano che erano al completo. Tornando verso la stazione i quattro entrano anche all’Albergo Stazione, ricevendo un rifiuto anche lì, io credendo che lì non avevano chiesto, ho lasciato fuori le valigie, entro e, sfoderando il mio italiano senza cadenze dialettali, chiedo se c’era una stanza per due. Tutto premuroso l’albergatore mi dice di si e ci accompagna in camera, dove abbiamo dormito, invece gli altri 4 hanno passato la notte sulle panchine della stazione, avevano solo il torto di essere meridionali, come me d'altronde, solo che io mi esprimevo in italiano senza accenti particolari. Il giorno dopo il tipo si era fatto vivo alla stazione e ci ha mandato, solo a noi due che avevamo dormito, a lavorare nel parco di Monza, dove c’è l’autodromo, alla costruzione di una piscina.    
A Monza ho lavorato in vari cantieri edili, ma anche lì non ero soddisfatto, leggendo gli annunci di offerte di lavoro su un giornale, sono stato assunto come autista in una fabbrica di borsette a Lambrate, figuriamoci, non conoscendo Milano, come facevo a fare un lavoro del genere, dovevo portare le borse alle signore che lavoravano in casa e dopo qualche giorno ho capito che non potevo farcela. Intanto andavo a dormire nella casa (si fa per dire) che ci aveva dato il famoso “impresario”, questi si era accorto che non lavoravo più per Lui e voleva mandarmi via, allora sono ritornato a lavorare con i muratori.
 Era il mese di giugno del 1961, ricevetti un telegramma da casa, mio padre aveva avuto una emorragia cerebrale, era in fin di vita, prendo il treno e arrivo a Trapani nella nostra casa di Marausa, mio padre era già in coma, non so se mi ha riconosciuto, il rimorso di averli lasciati la mamma e Lui, mi ha seguito per tutta la vita, anche quando sono partito io ha pianto in silenzio e, come aveva fatto per gli altri 2 miei fratelli, non si è opposto alla nostra decisione, voleva che ci creassimo un avvenire, sapeva che lì in quel momento non poteva esserci. E’ morto 2 giorni dopo , nonostante io fossi già lontano da casa, per la prima volta mi sono sentito solo, senza un sostegno, appunto, senza un padre.
     E qui torniamo a mio fratello Salvatore, Lui aveva 15 anni più di me, dico aveva perché, nel mese di giugno del 2000, è morto stroncato da un cancro ai polmoni, il nostro era un rapporto più da padre a figlio, che di fratelli, forse è stato questo che lo ha spinto a chiedermi di andare ad abitare con Lui, che nel frattempo era stato trasferito a Brescia, mi ha detto: Brescia e una gran città ti aiuterò a trovare un lavoro, così è stato, sono andato a lavorare alla Idropejo, vendevamo bibite e acque minerali ai bar e questo è stato il mio primo lavoro da venditore. Pero avevo trovato anche una famiglia, perché  la Lina è stata veramente brava con me, mi ha fatto sentire a casa mia.

Mia sorella Giacomina, da ragazzina si è presa cura di me, quando sono nato aveva 9 anni e quando è morto mio fratello Angelo ne aveva 11, mia madre non faceva altro che piangere e io mi sono affezionato a mia sorella, era la mia referente, anche quando incominciavo ad andare a scuola, era Lei che mi preparava, mia madre si occupava di più ad aiutare mio padre, teneva gli animali da cortile , una volta alla settimana faceva il pane nel suo forno, mentre i lavori di cucito li faceva Giacomina che era andata anche da una sarta ad imparare, era molto bella Giacomina, ha avuto molte proposte di matrimonio che Lei ha sempre scartato, poi, non so per mezzo di chi, gli hanno proposto di fidanzarsi con Vincenzo, veniva da Spagnola , una frazione di Marsala a 15 km da Marausa, Lei ha accettato e tutta la famiglia di Vincenzo sono venuti a casa mia per fare conoscenza, io avrò avuto 12 anni, ero molto timido, quando veniva gente a casa mia se io ero fuori, ci restavo per non farmi vedere, lo sono ancora adesso timido, forse questo e stato dovuto dal fatto che la mia adolescenza l’ho trascorsa da solo, infatti finito la quinta elementare, invidiando quei due miei compagni di scuola che hanno proseguito le medie, che però per frequentarle dovevano andare a Trapani in treno, mio padre mi ha mandato a lavorare da un suo zio che aveva parecchie terre da coltivare e io ero addetto al lavoro nei campi con il mulo e l’aratro, solo io e il mulo, dalla mattina alla sera per 3 anni di seguito , senz’altro questo ha contribuito al mio carattere un po’ introverso.
    Dopo tre anni, mi ero dimenticato completamente come si faceva a leggere e a scrivere, c’è voluta tutta la mia forza d’animo ad emergere, un po’ mi ha aiutato Grand Hotel , un fotoromanzo che portava a casa  il fidanzato di Giacomina, Vincenzo, oltre ai fotoromanzi si leggevano tante altre cose, dai romanzi all’attualità, poi avevo cambiato lavoro, andavamo con il camion a caricare materiale per la costruzione di strade, almeno ero in compagnia e, per fortuna in paese hanno aperto le scuole serali, le ho fatte tutte, ho frequentato le medie, poi una scuola agraria  e infine una scuola meccanica organizzata dall’ACI  che alla fine rilasciava la patente di guida.
   Vincenzo veniva in bicicletta il mercoledì e si fermava a dormire da noi, poi partiva la mattina dopo, veniva poi il sabato sera e partiva il lunedì mattina, io lo ricordo perché mi toccava di dare il mio letto a Lui e io andavo a dormire con mio padre, mentre le mie sorelle dormivano nel letto con mia madre. A parte il russare di mio padre, la cosa non mi faceva poi tanto dispiacere, mi dava la possibilità di leggere e poi la domenica ci portava al cinema, già, in quegli anni in paese hanno aperto un cinema e questo è stato un grande avvenimento.
 Giacomina e Vincenzo  si sono sposati nel 1955, sono venuti tutti i parenti a casa nostra e la sposa doveva andare in chiesa in corteo a piedi, ma mia mamma ha brontolato, allora si cominciava ad andare in chiesa in auto, allora mio cognato è andato ad affittarne una in paese, era una fiat Topolino, cosi la sposa con mio padre sono saliti in macchina (immaginate i sedili dietro della Topolino), e tutti gli altri siamo andati a piedi. Io non ero felice, me ne stavo in disparte, forse era anche perché per il pasto si era ammazzato un agnello che un anno prima mio padre aveva comprato piccolino, lo avevo allevato io, lo portavo a pascolare e mi seguiva con il mio cane Giulio, si era affezionato a me e io a lui.
      La loro primogenita e nata un anno dopo, si chiama Agata e qualche anno dopo hanno avuto il figlio maschio che si chiama Antonino. A questi due nipoti ho sempre voluto bene, tutti gli anni quasi, si andava in Sicilia e per non fare differenze io e la Luciana con le nostre 2 bambine, soggiornavamo da loro dividendo i giorni fra mia sorella Francesca e Giacomina, io mi divertivo a portare tutti i bambini in spiaggia, senza fare differenze per nessuno, infatti quando ero da Giacomina, prima di andare al mare passavo a prendere i bambini di Francesca e viceversa quando eravamo da Francesca, passavo a prendere i bambini di Giacomina.
     
     Francesca ha 3 anni più di me, quando si è sposata Giacomina era già una signorinella, però è sempre stata attiva, veniva sempre ad aiutare mio padre nei campi, in quegli anni si piantava il cotone e tutta l’estate la passavamo alla raccolta del cotone, poi c’era la vendemmia  e dopo si raccoglievano le olive. Nel 1955 in Sicilia c’è stata una riforma agraria, i governi di allora per dare un contentino ai contadini in rivolta, hanno espropriato dei feudi ai latifondisti, che per la maggior parte tenevano incolti, li hanno divisi in lotti di 3 ettari e li hanno assegnati ai coltivatori diretti che coltivavano i campi presi in affitto o in mezzadria, mio padre era in quelle condizioni e ne aveva fatto richiesta, cosi gliene hanno assegnato un lotto in contrada Favarotta, era distante 18 km da casa nostra, a quei tempi si adoperava il mulo per arare il terreno e per tirare il carretto, mio padre si alzava alle 3 la mattina per andarci e tornava alla sera alle 8, io andavo ad aiutarlo quando non lavoravo da un’altra parte e andavo in bicicletta, così potevo alzarmi più tardi. Vi abbiamo impiantato un vigneto, per alcuni anni siamo andati avanti così, poi io sono andato via dalla Sicilia, mio padre è morto e il terreno, in parti uguali, lo coltivavano i miei cognati, nel frattempo si poteva riscattare e quindi diventava di proprietà, ma poteva averlo solo un erede maschio che faceva l’agricoltore, lo hanno assegnato a me e certamente qualcuno ha chiuso un occhio, perché io nel frattempo ero a Brescia e facevo un altro mestiere. Alcuni anni dopo abbiamo deciso di venderlo, era un bel gruzzolo per quel tempo, 37 milioni di lire, ed io ho fatto 4 parti uguali dividendolo con mio fratello e le mie sorelle. Ora proprio sopra quei 3 ettari di terra sorge una centrale elettrica alimentata dal gasdotto che porta il metano dall’Algeria in Sicilia .
     Nel frattempo Ciccina, (cosi chiamiamo Francesca, a me mi chiamano Ciccio) si era fidanzata con Vincenzo Manuguerra, (anche questo cognato si chiama come il marito di Giacomina che di cognome è Lentini) tutti e due  da ragazzino mi hanno voluto bene, ricordo che una festa di Natale dovevamo andare tutti a casa di mia sorella Giacomina, gli altri sono andati in treno e io ho detto loro che sarei andato in bicicletta, ma quando sono rimasto da solo, chissà cosa mi è passato per la testa, invece di andare in bicicletta, ho preso la moto Lambretta di mio cognato, che non avevo mai guidato (figuratevi il pericolo che ho corso) e mi sono presentato da loro. Ebbene mio cognato è rimasto impassibile e non mi ha detto niente, Lui è fatto così, pero da mio padre le ho sentite su davvero.
    Francesca e Vincenzo si sono sposati nel 1960, un anno dopo hanno avuto il loro primogenito Gaspare, poi è nato Giuseppe nel 1964 e infine nel 1967 hanno avuto Paolo.
    Quando è morto mio padre nel 1961 ed io sono ripartito per Brescia con mio fratello, mia madre è rimasta sola, a Marausa nella nostra casa non poteva restare, Lei non era il tipo che avrebbe potuto farcela a vivere da sola, così si è deciso che sarebbe andata ad abitare con le mie sorelle, un mese per parte, immaginate il suo stato d’animo, non sentirsi a casa propria, certamente si sentiva di peso, mia sorella Francesca le aveva trovato due stanze che fiancheggiavano la sua casa e per qualche mese è stata lì, qualche volta è venuta a Brescia con noi, era qui nel 1962, l’anno che ho conosciuto vostra nonna Luciana, era un mese che ci frequentavamo e i miei non la conoscevano ancora, quella domenica eravamo a spasso, c’era un luna park dove adesso c’è la piscina di viale Piave e all’uscita abbiamo incontrato proprio mio fratello, mia cognata con la bambina e mia madre. Quella è stata la prima volta che mia madre ha visto vostra nonna.
     In quei giorni mia madre non stava bene, non riusciva a digerire, l’abbiamo portata all’Ospedale Civile di Brescia, dove hanno fatto tutti gli esami del caso e l’anno dimessa dicendoci che non aveva niente, dopo abbiamo scoperto che avevano sbagliato a consegnare i referti, a mia madre avevano diagnosticato un cancro allo stomaco, ma il suo referto era andato ad un’altra, immaginate quello che è successo all’altra persona. A mia madre poi il cancro gliel’hanno trovato qualche mese dopo in Sicilia, quando non c’era più niente da fare, è sopravvissuta un anno ancora tra atroci sofferenze, curata da mia sorella Francesca. Io in quell’anno sono andato tre volte a trovarla, prendevo il treno il giovedì sera e tornavo il lunedì mattina, l’ultima volta che l’ho vista viva, era l’ottobre del 1968, con un filo di voce, mi disse: vai a casa figlio mio, sapeva già di morire, così è stato, dopo 3 giorni ho ricevuto la telefonata che era morta, quella volta ho preso l’aereo (era la prima volta), giusto in tempo per vederla l’ultima volta. Dopo una prima sepoltura al cimitero di Trapani, ora sia mia madre, che mio padre, riposano nel cimitero di Paceco, nella tomba di mia nonna materna Francesca, la sua è una tomba perpetua e sembra che, cosi come aveva fatto mio padre ad accoglierla a casa nostra quando questa era in vita e nessuno la voleva, ora Lei ha ricambiato la cortesia di ospitarli per l’eternità.


    Io, vostro nonno Francesco, detto Franco, e da piccolo detto Ciccio, sono nato nel 1941, il 13 febbraio. L’Italia fascista capeggiata da Mussolini, alleandosi con la Germania di Hitler, aveva dichiarato guerra all’Inghilterra e alla Francia, in quel periodo le nostre truppe avevano invaso la Grecia e contemporaneamente difendevano la Libia, che era nostra colonia, dagli Inglesi che ce la volevano portare via, mio fratello Angelo era in Marina ed era certamente addetto alla scorta dei convogli navali che portavano i rifornimenti alle truppe. Vi consiglio di leggerla la storia, Vi accorgerete anche Voi che la guerra è una cosa stupida, fatta d’avventurieri che giocano come dei bambini, ma giocano anche con la vita di tanti ragazzi, chiamati a difendere la Patria, ma molto spesso mandati al massacro per i capricci di certi governanti. Io di ricordi di guerra non ne ho, ricordo vagamente un rifugio aereo che avevano scavato davanti alla nostra casa, il soffitto di questo sotterraneo era fatto di alberi di cipresso messi lì con tutti i rami, fitti, in modo che sopra potevano trattenere la terra, ricordo la scala per scendere in terra battuta, ma sono ricordi vaghi, io potevo avere al massimo 2 anni, perché nel 1943 in Sicilia sono sbarcati gli Americani, per fortuna sono intervenuti loro, che a loro volta erano stati attaccati dai Giapponesi, anche loro alleati di Hitler e ci hanno liberato dalla dittatura nazifascista. Ricordo anche una batteria di cannoni schierati dietro la nostra casa, in un campo di proprietà di un latifondista che forse aveva fatto mettere lì a difesa delle sue proprietà, infatti, erano dei vecchi cannoni della prima guerra mondiale, con le ruote grandi di legno e che certo non potevano nuocere più di tanto ad eventuali invasori, quelli li ricordo bene, perché sono rimasti lì per molti anni dopo e noi bambini ci andavamo a giocare sopra.
     Un altro ricordo preciso, avrò avuto 5 anni, è quando un nostro vicino è arrivato nel piazzale del nostro “baglio” dove, all’ombra degli alberi di gelso, noi bambini giocavamo e le donne cucivano, con un giornale, dove c’era la notizia che avevano ucciso il bandito Giuliano, diventato famoso nel dopoguerra perché si era dato alla latitanza,  rubando ai ricchi e qualche volta aiutando i poveri, i politici se lo fecero amico mettendolo a capo di un partito indipendentista che avrebbe portato la Sicilia ad essere un protettorato americano, ma forse era solo per catturarlo più facilmente, come è poi avvenuto e loro si sarebbero impossessati del potere autonomista.
    Come avevo già detto, abitavamo in quella porzione di fabbricato che, magnanimamente, lo zio di mio padre ci aveva lasciato, era uno spazio piccolo per un coltivatore diretto, dovevamo avere una stalla dove mettere il mulo che serviva per lavorare i campi e tirare il carretto con il quale mio padre portava le merci a casa o come quando, al tempo della raccolta dei meloni gialli, li portava in città al mercato, a volte a Trapani e a volte a Marsala, spesso mi portava con se, si partiva di notte e fino a quando non mi addormentavo, mi faceva ammirare il cielo stellato, conosceva tutti i nomi delle costellazioni e i punti dove si trovavano i pianeti, mio padre aveva fatto solo fino alla terza elementare, sapeva solo fare i conti, leggere e scrivere, eppure era colto, forse di quella cultura contadina, tramandata da padre in figlio, sapeva fare tutto, dai lavoretti manuali, come fare le borse con le foglie di palme, i cesti con le canne che tagliava a strisce intrecciate con i rametti morbidi dell’ulivo, o le scope che intrecciava con una palmetta nana, o le cordicelle che servivano a legare i mazzi di grano quando era tempo di mietitura, che ricavava dalle foglie di agave tagliate a strisce e fatte essiccare al sole, era bravo anche a praticare gli innesti alle piante, specialmente alla vite e per questo era molto richiesto nella zona, ricordo che mi insegnava, io ancora giovane, a fare questi innesti, (lo pratico ancora nel mio giardino) e a Lui non importava se solo la metà attecchivano, importante era che tramandasse a suo figlio il suo sapere.
    Come ho detto, la nostra casa non aveva spazi abbastanza, ma usufruivamo di alcune stanze contigue a noi, e di un pezzetto di terra dietro la casa, un tempo appartenevano a mio nonno ed erano state cedute a quella famiglia di latifondisti, i fratelli Salvo, che avevano schierati i cannoni, ebbene questi stranamente, forse per qualche patto non scritto con mio nonno, lasciavano a noi l’uso, solo dietro qualche compenso in natura tipo: le mandorle alla loro raccolta o qualche carciofo dalla carciofaia che mio padre aveva impiantato, il tutto in maniera simbolica, come a dimostrare che i proprietari erano loro, io però ho sempre considerato quel pezzo di terra mio, ricordo che mio padre mi mandava a portare un paio di volte all’anno quelle cose, il saluto che si dava ai signori allora in Sicilia era: “Voscienza Binirica”, ma io li salutavo semplicemente “Buongiorno”, già allora non ero incline ad assoggettarmi a certe usanze arcaiche, i tempi erano cambiati certo e vi porto un esempio: noi eravamo 5 figli, mio fratello Angelo, Salvatore e Giacomina ai genitori davano del Voi, mia sorella Francesca ed io che eravamo nati dopo, davamo del Tu, e questo senza che i miei genitori avessero interferito, era semplicemente cambiata un’era.
    Ricordo ancora il mio primo giorno di scuola, era la prima volta che lasciavo la mia casa, mi ha accompagnato mia sorella Giacomina e, quando sono rimasto solo in aula con il Maestro, si chiamava Martinico, e i miei compagni, ho avuto un attimo di panico, poi mi sono abituato, in fondo mi piaceva imparare cose nuove, le scuole non avevano tutte le classi nello stesso edificio, la prima era in una casa distante dalla nostra e andavamo a piedi, un mio compagno abitava nello stesso “baglio”, si chiamava Antonino era nato ad Adis Abeba, suo padre era andato in Etiopia per la guerra di conquista e, dopo che era diventata colonia italiana si era fermato lì come colono, dove aveva un’azienda agricola che ha dovuto lasciare nel 1945, dopo che gli inglesi avevano occupato il territorio, il padre lo avevano fatto prigioniero e la madre con il mio amico Nino li avevano spediti in Italia a casa dei nonni. Il nonno di Nino era stato uno dei pochi militari che avendo fatto la prima guerra mondiale era riuscito a tornare a sano e salvo, spesso a noi bambini,  raccontava tutto quello che aveva passato in guerra, erano solo miserie e stenti, fango delle trincee e morti, mai che ci abbia raccontato un fatto di eroismo, gli eroismi sono solo sui libri di storia dei vincitori e, anche quando una guerra si vince come quella del 1915/1918, i vincitori sono solo i generali, i soldati hanno dato solo il loro sangue. Antonino era un pò gracile di salute, io lo avevo preso sotto la mia protezione, ricordo che durante un  ritorno da scuola, una banda di ragazzacci si divertivano a farci i dispetti, io ero un po’ più alto di Lui, ci stavano picchiando, non so come, (ho sempre aborrito la violenza) nel difendermi, ho fatto male ad uno di loro, un graffio sotto l’occhio destro, nel vedere il sangue quelli sono scappati e da quella volta, non ci hanno più importunati e ci rispettavano.
       La mia adolescenza è passata così, ricordo la morte dell’unica nonna che ho conosciuto, la mamma di mia madre, Francesca che se ne è andata nel 1952, ha fatto appena in tempo di vedere per l’ultima volta sua figlia Marietta che era venuta in Italia dagli Stati Uniti nel 51 assieme a suo marito che poi era il fratello di mio padre, li ricordo benissimo, sono arrivati in Sicilia in nave dopo 11 giorni di navigazione, erano pieni di bagagli, hanno portato di tutto, anche alimenti , ricordo grosse scatole di formaggio fuso che sapeva di formaggini, e poi tanti vestiti colorati per tutti.
  
Vi ho già detto della mia partenza per il nord e del periodo che abitavo in casa di mio fratello Salvatore, siamo in maggio del 1962, una sera che ero solo e non sapevo cosa fare, vado in un locale dove si ballava e incontro vostra nonna Luciana.
 Già, Luciana, 36 anni e cinque mesi assieme, dal 13 maggio 1962 al 27 novembre 1998.
 Il 13 maggio 62 era una domenica, mi ero stufato di scorrazzare per le balere della provincia, assieme al mio amico con il quale prendevamo a nolo una macchina, io avevo la patente ma non la macchina, Lui neanche la patente (ora è un dirigente della FIAT di Torino), la domenica si andava nel corso principale di un paese, si caricavano due ragazze e si portavano a ballare in qualche balera o in casa di qualcuno che organizzava una festa, allora si andava in balera al pomeriggio e poi anche alla sera, alla sera naturalmente si cambiava ragazze, al pomeriggio le più giovani (ricordo che una sera quando le abbiamo riportate sul corso del paese, la mamma di una di queste era ad attenderla e l’ha presa ad ombrellate in testa) e alla sera le più smaliziate che avevano il permesso di stare fuori fino a mezzanotte, allora i locali da ballo chiudevano al massimo all’una. Quella domenica avevo deciso di non andare con la solita compagnia, ho già detto che mi ero stufato, non era per me , preferivo una vita tranquilla, presi la mia vespa e andai in castello a Brescia in un locale dove si ballava, si chiama IL Pincio, esiste ancora, ero seduto ad un tavolino da solo, poco distante, ad un altro tavolo, c’erano due ragazzi con una ragazza che però lasciavano da sola per ballare con altre ragazze, il fatto mi pareva strano, presi coraggio superando la mia timidezza (timido lo sono sempre stato) e la invitai a ballare, ricordo che era un lento (ho scoperto dopo che anche Lei sapeva ballare solo i lenti) e forse anche per quello accettò: non ci siamo più lasciati, abbiamo ballato tutta la sera, ad un certo punto la invitai a bere una bibita al bar, Lei era davanti a me mentre salivamo una scaletta, istintivamente mise una mano dietro la schiena ed incontrò la mia che la cercava , quello fu il gesto che ci unì per tutta la vita.
    Già, tutta la vita, la sua si interruppe quel 27 novembre 98, era stato anche il giorno della sua nascita 58 anni prima, io feci di tutto per impedire che mi lasciasse, imprecai, corsi come un matto da un dottore all’altro, pregai Dio anche, io che non sono un fervido credente, feci un patto con Lui, avevamo un Crocifisso in legno stilizzato al capezzale e la notte mentre Lei dormiva imbottita di antidolorifici e sonniferi, io piangevo e pregavo, il patto era che avrei dato la metà degli anni che mi restavano di vita a Lei, perché finissimo i nostri giorni insieme, ma non mi ascoltava, erano gli ultimi giorni, capii che non c’era più niente da fare quel giorno che le avevo preparato una tazza di latte con dei biscotti e cercavo di imboccarla, Lei si sforzava di mangiare, non ha mai ceduto un istante di sperare di farcela a rimettersi, era già successo altre due volte che si era rimessa dopo certe cure di chemioterapia, ma quella volta metteva il cibo in bocca ma non riusciva a mandarlo giù, mi ritrovai a constatare che erano più le mie lacrime che finivano nella tazza che il latte che riusciva a mandare giù Lei. Quella notte stessa entrò in coma epatico, sapevo che era la fine, mi arrabbiai con il Crocefisso stilizzato, dissi che lo avrei distrutto, giurai che lo avrei bruciato nel camino in fondo all’orto e l’avrei fatto se non fosse successa una cosa che allora pensai strana : l’indomani mattina presto venne Don Gianni il nostro prete che è anche un loro lontano parente per darle l’Estrema Unzione e si mise ad osservare quel Crocefisso chiedendo come mai lo avevamo noi dove lo aveva trovato che era bello ecc. Nei due giorni successivi non pensai più al Crocefisso, la sera del 27 alle 18,30 la mia Luciana cessava di vivere, io le tenevo la mano sinistra, Paola la mano destra, Marina le teneva la testa e mia cognata Liliana ci consolava dicendoci che finiva di soffrire, un respiro più breve, poi ne salta uno e poi, l’ultimo.
     In chiesa al funerale il prete tira fuori ancora il discorso del Crocefisso dice, che anche Lui ha sofferto in croce come ha sofferto la mia Luciana e ne ha parlato almeno per mezzora. Quel pomeriggio in macchina mentre accompagnavamo Lei al cimitero dissi a Paola che appena tornavamo a casa doveva portare il Crocefisso al prete spiegandogli tutto, cosa che Lei ha fatto e il Crocefisso e rimasto appeso sopra un’Acquasantiera nella chiesa fino a quando don Gianni è andato in pensione e spero che se lo sia portato con se, perché adesso in chiesa non c’è più. In quel momento pensavo che qualcosa di Divino aveva fermato la mia mano che stava per bruciarlo, tramite il prete, adesso penso, molto più semplicemente che al prete quel Crocefisso piaceva  perché era artisticamente bello.
  Ecco ragazzi, questa è la mia storia, avrei  potuto raccontarvi qualche altro episodio, ma mi fermo qui, anzi qui si ferma la storia dei discendenti DI-GIOVANNI, almeno dal ramo del Vostro bisnonno Giuseppe ed è curioso che a proporla sia stato io, Vostro nonno Francesco, che è stato l’ultimo ad avere questo cognome, infatti anche mio fratello Salvatore non Ha avuto figli maschi e le vostre madri sono le ultime ad avere questo cognome, mi dispiace ragazze e ragazzo ma, siete finiti in un ramo secco di questo albero genealogico, infatti portate un cognome diverso, il resto lo conoscono anche le vostre madri che possono raccontarvelo, io sarei stato felicissimo se mio nonno avesse scritto le sue memorie, ora avendole lette saprei qualcosa in più sulle origini della mia famiglia e avrei potuto risalire almeno fino al 1600.